“Ne facti pereat memoria”. Raccogliere testimonianze di scuola per comprendere la storia dell’insegnamento e dell’apprendimento: le situazioni, le difficoltà, le passioni, le paure, le aspettative, le conquiste… la vita delle comunità scolastiche.

Questo sito  è frutto del lavoro di molte persone, tutte interessate a conoscere (e a far conoscere) di più il mondo scolastico. Al di là dei luoghi comuni e in tutte le sue innumerevoli sfaccettature. Il progetto e il coordinamento sono a cura di Gianfranco Bandini, professore di storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze. Le videointerviste sono state realizzate da studentesse, studenti e volontari. Gli intervistati sono maestre e maestri, quasi sempre in pensione o prossimi ad essa.

Pubblicazioni correlate

Bandini, G., & Mangiatordi, A. (2020). 600 maestri raccontano la loro vita professionale in video: un progetto di (fully searchable) open data. In IX Convegno Annuale AIUCD. La svolta inevitabile: sfide e prospettive per l’informatica umanistica (pp. 14–18). Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore. ISBN: 978-88-942535-4-2

La ricerca storica nell’area educativa si è arricchita, soprattutto dall’inizio del nuovo secolo, di nuove forme di indagine, in particolare nell’ambito della comunità internazionale, attraverso conferenze, summer school ed altre iniziative che hanno coinvolto sempre di più i gruppi di ricerca nazionali. La storia della scuola, forse la più tradizionale tra le varie aree di ricerca educativa, si è scrollata di dosso una focalizzazione insistita sulla dimensione normativa, politica e istituzionale, per mirare a una ricostruzione del passato più ricca di aspetti e sfaccettature, più attenta alle dimensioni dei vissuti personali e collettivi, anche nelle loro implicazioni emotive e implicite. Allo stesso tempo ha cominciato ad allontanarsi dal riferimento esclusivo allo stato nazionale e ai suoi confini per aprirsi a una dimensione più ampia, sia in chiave comparativa che di world history.

In questo contesto credo che ragionare sull’utilizzazione di un approccio di public historynell’ambito educativo significhi collocare le nostre ricerche nell’alveo dell’attuale rinnovamento degli studi e, al tempo stesso, aprire delle interessanti possibilità di studio, anche al confine tra diverse tradizioni disciplinari. Tuttavia, per giustificare questa ipotesi di lavoro e dimostrarne la ragionevolezza, è indispensabile seguire un percorso di riflessione che ci consenta di collegare alcuni importanti elementi, spesso percepiti come separati anziché parte integrante di un unico processo di cambiamento.

I saperi storici, in Italia e altrove, hanno discusso a lungo sul rapporto storia memoria, in particolare attorno ad alcune tematiche che sollevavano non poche questioni interpretative: si pensi, a titolo di esempio, alle controversie sulla Resistenza, sugli “anni di piombo” oppure alla storia di intere classi sociali come gli operai o soggetti marginali come le lavoratrici delle risaie (le cosiddette “mondine”). La contrapposizione tra storia e memoria ha avuto anche momenti polemici, tesi a evidenziare le differenze tra i due approcci: il primo, di carattere scientifico e “oggettivo”, il secondo, di carattere popolare e “soggettivo”. Il canone storico, ereditato dall’esperienza ottocentesca, aveva al centro la depurazione dello studio dalle inclinazioni personali, la tendenza ad avvicinarsi alle scienze fisiche, a procedure di indagine che, come dimostra la storiografia quantitativa, diffidava dei resoconti personali e delle descrizioni approssimative, o ritenute tali.

L’evoluzione del dibattito storiografico ha portato a un sostanziale accordo sul fatto che non spesso non è possibile scegliere una metodologia di ricerca per la sua presupposta e teorica superiorità alle altre: è soltanto nell’applicazione ad una specifica tematica e a specifici obiettivi di studio che si può valutare l’efficacia delle scelte metodologiche. Da questo punto di vista è stato esemplare il dibattito tra le posizioni della ricerca qualitativa e quella quantitativa, che ha avuto come principale risultato un maggiore eclettismo e tolleranza verso le diverse modalità del fare storia.

Per quanto riguarda, in particolare, la contrapposizione tra memoria e storia, un modo per superarla e scioglierla in una visione più aperta alle molte dimensioni della storia, è quello di considerare il contributo veramente peculiare e originale dell’uso delle fonti orali. Quando si parla di storia orale si mette infatti in evidenza l’assoluta originalità di questa modalità di interrogazione del passato, il suo porsi al di fuori del documento scritto ed anche la sua variabilità. Certamente non se ne può fare un uso esclusivo, ma pur nell’incrocio con le altre tradizionali tipologie di fonte, la fonte orale, nelle ricerche che ne fanno uso, si caratterizza per la sua centralità, per la sua incredibile capacità di modificare la percezione che lo stesso storico ha del suo oggetto di ricerca: capita così che durante le interviste ci si accorga di questioni che non avevamo considerato o sottovalutato, di aspetti che non erano presenti nella letteratura scientifica e che quindi non facevano parte delle iniziali intenzioni di ricerca.

Di fatto la storia orale consente di oltrepassare la contrapposizione tra storia e memoria aprendo un nuovo territorio di ricerca che, per l’area educativa in modo speciale, appare in gran parte inesplorato e di grande interesse. Al centro della storia orale troviamo infatti una fonte che ha una specifica e eccezionale caratteristica: è una fonte tipicamente relazionale, che viene a costituirsi nel momento stesso della raccolta dell’intervista, attraverso il rapporto tra lo storico e la persona che ricorda o meglio, che è sollecitato e condotto a ricordare. Non è un racconto scritto, meditato e strutturato, destinato a uno specifico pubblico di lettori; non è nemmeno una serie di risposte a un questionario prestampato; è prima di tutto un incontro tra persone, tra lo storico che chiede e ascolta e il testimone che racconta la propria esperienza e quella di altri. E’ proprio in questa relazione, fatta di emozioni oltre che di avvenimenti, che sta la peculiarità della fonte e la sua capacità di portarci oltre al dissidio tra storia e memoria.

La storia orale, fin dalla sua origine, ha delle caratteristiche che la contraddistinguono e che sono particolarmente adatte alla storia dell’educazione. Innanzitutto il primato dei vissuti, individuali e collettivi, che non sempre coincidono e sulle cui sfasature occorre sempre interrogarci; poi la focalizzazione sul significato che gli eventi assumono per le persone, piuttosto che la fredda analisi di ciò che è successo. Un modo di procedere che porta a contatto con i pensieri delle persone, con ciò che esse hanno sentito e percepito, quindi con la gioia o la paura, l’aspettativa o la delusione, e via dicendo. La storia che in questo modo viene alla luce appare costituita da molti dettagli, alcuni dei quali possono singolarmente presi apparire insignificanti, ma che nel loro complesso delineano una storia vista “dal basso”, dalla parte di chi l’ha vissuta. All’origine, è bene ricordarlo, c’è una tradizione marxista che dà voce alle classi sociali subalterne, ai marginali del passato, a coloro che parlavano in dialetto, non avevano competenze alfabetiche e a stento sapevano tracciare il disegno della propria firma o apporre una croce.

Grazie alla storia orale, e ad altri interessanti approcci come la storia locale (o regionale) di grande e affermata tradizione, noi possiamo essere sensibili alla ricchezza del passato e alle grandi variazioni che continuamente appaiono al nostro sguardo, anche tra i vissuti di luoghi che distano pochi chilometri gli uni dagli altri.

Accanto al contributo della storia orale occorre porre quello, assai più recente e in espansione, della Public History: si tratta di due approcci che hanno alcuni interessanti punti in comune e che possono essere utilizzati con grande efficacia per costruire una memoria del passato educativo a tutto tondo, oltrepassando gli schemi consueti. In un certo senso possiamo affermare che non c’è Public Historysenza un coinvolgimento della popolazione e ciò comporta l’utilizzo della storia orale, anche quando ciò che si raccoglie non è la testimonianza sul passato recente ma il commento e la discussione su un passato lontano nei secoli. Per quanto gli esempi più interessanti riguardino la contemporaneità, il modello partecipativo è così applicabile a ogni epoca storica.

La Public Historyha già una sua consolidata tradizione, soprattutto nord americana e anglosassone, che si può far risalire agli Ottanta con la fondazione del National Council on Public History (NCPH, http://ncph.org). Tuttavia, qui si fa riferimento al suo incontro con le esperienze della storia digitale, una nuova modalità di fare storia, di documentarla e soprattutto di comunicarla. Agli inizi degli anni Novanta, quando si parlava di nascita della storia digitale, una serie di tentativi di utilizzare le tecnologie digitali nella ricerca storica hanno cominciato ad abbandonare l’uso del computer inteso soltanto come aiuto nella stesura dei documenti, esecutore di calcoli complessi o come strumento di catalogazione. La Digital Public History  (utilizzando la terminologia che evidenzia il forte legame con le nuove tecnologie) è quindi una storiografia recente, ma ha alle spalle una robusta e innovativa tradizione. La storia digitale, del resto, ha anch’essa una sua specifica e ricca storia, un suo percorso evolutivo e i suoi rami secchi, nonostante siano passati pochissimi anni dai primi tentativi. Il mondo tecnologico ci ha abituato, anche se forse ancora non del tutto, a valutare con attenzione le discontinuità che esso continuamente produce, con effetti globali e in archi temporali molto ristretti.

Si scopre infatti tutta la potenzialità comunicativa di Internet e, a partire dall’esperienza pioneristica di Edward L. Ayers con The Valley of Shadow (1993),è stato un susseguirsi di attività storiche in rete che hanno visto una partecipazione sempre più forte del pubblico di appassionati. Se prendiamo in considerazione un esperimento più recente e di grande significato, The September 11 Digital Archive sull’attacco alle torri gemelle, ci accorgiamo che i due esempi (1993-2001) sono il segno tangibile delle rapide mutazioni della storia digitale, delle sue diramazioni e della sua trasformazione (in alcuni casi) in Public History. La nascita nel 2010 di una federazione internazionale dedicata a questo approccio permette di cogliere appieno il momento di cambiamento che sta vivendo il mestiere di storico (IFPH, International Federation for Public History) (http://ifph.hypotheses.org): ciò avviene quando la ricerca storica si sposa con le testimonianze, quando lo storico accetta di non svolgere un ruolo di divulgatore del sapere accademico, ma di facilitatore della memoria storica; quando la storia viene costruita in rete, accentuando moltissimo gli aspetti comunicativi e di apertura ai vari pubblici non specialistici, assunti come principali riferimenti e interlocutori del lavoro storico.

Questo tipo di approccio comporta quindi delle conseguenze di rilievo, anche sul piano dell’organizzazione della ricerca che non può più essere condotta da un solo specialista. L’abbandono del modello individualistico rappresenta di per sé una specie di mutazione genetica del mestiere di storico perché implica sia un continuo scambio di idee con altri colleghi sia la necessità di rapportarsi con aree disciplinari assai lontane da quelle tradizionalmente abbinate alla storia, come l’archivistica.

In secondo luogo, occorre considerare  che la trasformazione dei modelli comunicativi nel contesto digitale ha fatto proliferare i siti webcon contenuti storici non gestiti da accademici e che la Public History, di fatto, è generata prima di tutto dal desiderio del pubblico di partecipare alla scrittura, documentazione, discussione sul passato. Gli storici di professione, soprattutto europei, spesso si sono lamentati di questa storia in rete che facilmente offre il fianco a una facile critica: ci sono casi, infatti, di pubblicazioni che contengono strafalcioni, inesattezze, mancanza di documentazione e via dicendo. L’evoluzione tecnologica ha rotto definitivamente gli argini dell’editoria tradizionale che filtrava le richieste e selezionava i prodotti. Ogni utente può oggi diventare editore di se stesso e ciò comporta un enorme aumento di contenuti storici in forma digitale. Tuttavia, nonostante molti timori e dubbi, i risultati di questo irrompere del pubblico generico (o semplicemente appassionato) nella comunicazione pubblica sono stati più positivi del previsto e hanno attratto anche gli storici di professione in un nuovo contesto di generazione di contenuti storici. Si è scoperto, ad esempio, che Wikipedia, forse la più nota e diffusa forma di condivisione del sapere tra non specialisti, contiene errori e inesattezze in misura analoga a blasonate opere a stampa. Sul piano dei dati fattuali (date di nascita e di morte, composizione dei governi, condottieri in battaglia, ecc.) si può anzi notare una sua elevata attendibilità: se la sua organizzazione del lavoro è sul piano teorico (e metodologico) discutibile, da un punto di vista pragmatico le cose stanno diversamente e le diverse comunità che la compongono hanno ottenuto risultati decisamente positivi.

Da un altro punto di vista si può sostenere che entrare in contatto con la società può non essere ritenuto prioritario in alcuni ambiti del sapere accademico, ma in quello educativo le cose stanno diversamente. Chi fa ricerca nelle materie pedagogiche, seguendo una lunga e consolidata tradizione, ha sempre avuto molta attenzione per il vasto pubblico dei professionisti della formazione: educatori, professori, maestri (e recentemente anche le famiglie) sono stati a lungo degli interlocutori privilegiati della ricerca pedagogica e, soprattutto, didattica. La Public History, da questo punto di vista, rappresenta un modo assai efficace di mantenere questo legame con la realtà educativa, di accettare la sfida del confronto e della collaborazione: di sostenere l’utilità sociale della ricerca storica, per esempio nella formazione all’esercizio delle professioni educative e di cura,  dove permette di aumentare la consapevolezza del proprio lavoro e del suo significato.

Da ultimo si può notare che questo modo di fare storia è del tutto conforme alle finalità del recente Movimento Open Access, al suo desiderio di far circolare la cultura senza barriere né ostacoli di sorta, a partire da quelli economici. Il movimento, al quale hanno aderito anche molte università italiane e europee, ha le sue radici, ormai lontane, nei modelli tecnologici alternativi degli anni Sessanta e Settanta: la controcultura aveva espresso l’idea rivoluzionaria che il softwarefosse un bene comune, al quale tutti potevano contribuire e accedere, seguendo una logica del dono e non del profitto. Applicando questo modello di condivisione al sapere accademico, il Movimento Open Access sostiene la necessità di uscire dai circuiti editoriali che rendono difficili le pubblicazioni e assai limitato, perché costoso, l’accesso ai contenuti. Le possibilità di disintermediazione, oggi offerta a ogni utente della rete, vengono così enfatizzate e divengono un modello per riunire in modo efficace il mondo della ricerca accademica a quello dei contesti educativi.

L’approccio della Digital Public History è particolarmente congeniale agli studi sulle memorie educative. I tempi sono maturi, a mio parere, per questo incontro che appare, da molti punti di vista, necessario e non procastinabile. La recente riflessione storica sulla memoria educativa, nelle sue diverse e ancora non uniformi accezioni, presenta un minimo comun denominatore che consiste proprio nel legame tra la ricerca accademica e i contesti di vita.

Le memorie educative, infatti, sono patrimonio di una determinata comunità e ogni ricerca non può che tener conto del rapporto di scambio tra chi fa ricerca e i testimoni. Ciò che si stabilisce è un patto di collaborazione che trova proprio nella dimensione della storia pubblica la sua migliore realizzazione. Soprattutto, ciò può rendere  reale e effettivo uno dei principi cardine della storia orale e di ogni attività di ricerca che implica il coinvolgimento dei soggetti: la cosiddetta “restituzione della memoria”. La testimonianza non viene offerta al ricercatore perché la metta in un cassetto o la pubblichi in una prestigiosa quanto inaccessibile rivista. Piuttosto, la memoria raccolta nell’incontro tra ricercatore e testimone è un bene prezioso da ri-consegnare alla collettività perché arricchisca la conoscenza del passato, la sua consapevolezza e la riflessione comune. La funzione dello storico pubblico è allora quella di aiutare a contestualizzare le micro-memorie, a collegarle alle dinamiche della società, alle sue tensioni e conflitti, a cogliere il rapporto tra la dimensione locale e quella globale, a favorire il dialogo tra i soggetti sfruttando l’ambiente digitale. Un’attività di mediazione culturale che ha degli importanti aspetti etici, particolarmente evidenti nelle materie educative. Tra il lavoro intellettuale e le pratiche sociali viene così stabilito un legame duraturo che trova nella presenza in Rete un modo ottimale per restituire la memoria: non una volta per tutte e in modo definitivo, come nelle pubblicazioni cartacee, ma in una forma che permette di continuare nel tempo a riannodare interpretazioni e testimonianze, a sollecitare nuove riflessioni e nuovi contributi. Il lavoro intellettuale “sulle e con” le memorie può diventare, citando Freud, una sorta di “analisi terminabile e interminabile”, sempre aperta a ulteriori aperture di significato.

Certamente la costruzione di un modello di ricerca ispirato alla Public Historynon è semplice né può avvenire senza una gradazione di esperienze e di riflessioni. Consiste in primo luogo nell’abbandono di un modello di ricerca e di scrittura accademica antico e radicato, dove l’intellettuale scrive per altri suoi pari, in un circuito dove tutti sono lettori e scrittori professionisti. Passare a un modello di comunicazione pubblica, anche se non comporta necessariamente il completo abbandono del modello precedente, può dare un senso di tradimento della missione fondamentale dello storico, in favore di un impegno verso un pubblico variegato e molteplice, che non condivide le stesse competenze e conoscenze del ricercatore.

In secondo luogo occorre considerare che la Digital Public Historyinclude al suo interno, come abbiamo accennato, molte esperienze e pratiche di ricerca, alcune delle quali distanti dalle consuete competenze dello storico: in primis l’uso della comunicazione digitale, la generazione e l’interpretazione di fonti orali, il coinvolgimento del pubblico nella costruzione del sapere storico, il collegamento con le logiche del movimento open access. Tutto ciò rende assai difficile avviare le ricerche in questa nuova direzione se non esistono (o sono molto limitate) esperienze e studi in queste aree.

In assenza di specifiche e esplicite esperienze italiane di Public History in campo educativo, credo che sia necessario proporre un percorso di avvicinamento a questo approccio che tiene conto delle sue esigenze fondamentali anche se, di fatto, si configura come un percorso esplorativo e di sperimentazione. La prima difficoltà che si incontra è costituita dalla necessità di apprendere una serie di competenze di base in campo digitale che sono assolutamente necessarie ma che mettono alla prova lo storico e la sua tradizionale formazione umanistica. E’ utile, allora, fare appello alle (poche) esperienze in ambito educativo e avvicinarsi a comunità scientifiche che hanno compiuto molti sforzi in questa direzione e possono offrire una palestra di discussione e di confronto (si pensi, soprattutto, agli studi dei ricercatori che hanno portato alla nascita dell’Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura Digitale, http://www.umanisticadigitale.it). Il secondo ostacolo è poi costituito dalla necessità di specifici finanziamenti per poter organizzare un lavoro che coinvolge molte persone.

Tenendo conto di queste problematiche ho cercato di realizzare un percorso di avvicinamento alla Public History con la consapevolezza di dover partire con esperienze semplici ma significative, capaci di offrire la chiara percezione di ciò che potrebbe diventare il progetto di ricerca. Il progetto che qui presento è, al tempo stesso, una prova sul campo di storia digitale ed anche un primo nucleo di storia pubblica: di quest’ultima contiene, in particolare, la volontà partecipativa e il desiderio di fornire una utilità sociale del proprio lavoro. Una proposta, in sostanza, aperta a future collaborazioni e sviluppi.

Il punto di partenza di questa esperienza è stato l’impegno didattico. Le esigenze dell’insegnamento universitario mi hanno messo di fronte alla necessità di rinnovare la didattica e, come si vedrà tra poco, anche la ricerca. Ho constatato un grande divario, veramente incolmabile, tra le memorie educative degli studenti, futuri insegnanti di scuola primaria, e le memorie scolastiche che, almeno in piccola parte, potevano essere estratte dai manuali universitari di storia della scuola o nella letteratura. Mi sono posto l’obiettivo, allora, di creare un percorso di studio che mettesse in luce l’utilità delle memorie per la formazione dei (futuri) formatori, per la consapevolezza del loro ruolo e delle caratteristiche di fondo (spesso implicite) della loro professione. Un obiettivo che in realtà potrebbe valere per tutte le professioni educative e, in un’accezione più ampia, di cura (come nel caso delle professioni infermieristiche o di assitenza sociale).

Purtroppo gli usi ideologici e politici che in passato hanno asservito la storia hanno oscurato, specie nei curricula scolastici, il suo apporto alla formazione del pensiero critico. Seguendo una impostazione che altrove è più evidente (si pensi allemedical humanitiesnegli Stati Uniti), ho organizzato una raccolta di testimonianze che favorissero la chiara percezione della costruzione storico-sociale e culturale dell’attuale professione di insegnante.  L’intento era quello di  contrastare la presunta “naturalità” delle pratiche scolastiche: un concetto che in genere fa parte della “pedagogia popolare” degli insegnanti (come sosteneva Bruner), ma non tiene conto delle tendenze di breve e lungo periodo, delle pressioni interne ed esterne che si esercitano sul ruolo dell’insegnante, in modo spesso implicito.

Dopo un accurato periodo di formazione, ho così impegnato molti studenti nel ricercare le memorie scolastiche di maestre e maestri in pensione cercando di delineare una storia dell’insegnante elementare dal secondo dopoguerra a oggi. La proposta di ricerca è stata accolta con molta partecipazione e gli intervistatori si sono sentiti fortemente coinvolti in questa forma di documentazione collettiva. Questo tipo di approccio ha consentito di uscire dai canali della storia politico-normativa per cercare di entrare nella “scatola nera” della scuola, facendo storia dei vissuti scolastici e della cultura scolastica. Nella logica della DigitalPublic Historyle centinaia di interviste non sono state trascritte o conservate gelosamente, ma caricate su YouTube da ogni intervistatore. Un canale specifico le ha unite (https://www.youtube.com/user/profbandini) e organizzate in playlists; è stato poi creato il sito web www.memoriediscuola.itper offrire un contesto adeguato alla comprensione del progetto e una migliore fruibilità dei video.

Alcune evidenze tratte dall’analisi delle numerose testimonianze ci consentono di apprezzare la validità dell’approccio e di poter prevedere una serie di sviluppi della ricerca.

Il primo risultato di questa indagine così particolare è il significato generale che si può trarre dalla visione delle oltre 200 ore di video-interviste. I ricordi della professione insegnante sono precisi, vividi e dettagliati: descrivono gli aspetti ritenuti più interessanti e percepiti come maggiormente importanti del lavoro svolto, mediamente, nell’arco di almeno tre decenni. Nel loro insieme, proprio perché sono il frutto della vita scolastica giorno per giorno, rappresentano un forte antidoto a ogni retorica istituzionale e pedagogica (di cui la storia della scuola è molto ricca, senza interruzioni fino al tempo presente). Nelle testimonianze, infatti, in primo piano ci sono aspetti assai poco retorici e molto concreti che non indugiano nel magnificare “la missione” dell’insegnante, ma innanzitutto mettono in evidenza un aspetto: la fatica. La fatica che occorreva per recarsi alla scuola, spesso distante molti chilometri dalla propria abitazione e difficilmente raggiungibile: chi racconta dell’esperienza in scuole di montagna non manca mai di sottolineare il ghiaccio sulle strade e le camminate nella neve, quando la sede era raggiungibile solo a piedi. La fatica che occorreva per stare tutta la mattina nell’aula appena riscaldata da una stufa che spesso doveva essere alimentata a spese del maestro (oppure riscaldata dai vapori della stalla sottostante). La fatica di essere donne e insegnanti, cercando una difficile conciliazione dei due ruoli in un contesto sociale assai poco adatto per combinare le esigenze del lavoro con quelle della cura (sostanzialmente esclusiva) dei figli.

Insomma, le difficoltà materiali, familiari e ambientali balzano in primo piano ben prima di quelle didattiche ed alcuni racconti, che possono passare per aneddoti, in realtà sono il segnale di una scuola che nelle campagne condivideva la vita dura e faticosa dei contadini. La fatica dell’insegnamento nelle pluriclassi, ma soprattutto nei doposcuola (specialmente quelli del patronato) per somme irrisorie, ma che erano una sorta di tirocinio obbligatorio per accumulare punteggio. La fatica del processo di reclutamento ed il lungo precariato che richiedeva un’attenzione costante alla burocrazia delle supplenze e la partecipazione ai concorsi (anche cinque, sei per poter entrare di “ruolo ordinario”).

Quando si entra nel vivo del ricordo, a venire in primo piano sono poi gli aspetti affettivi, così poco presenti nella storia della scuola da essere spesso ingiustamente dimenticati. Ci sono maestre che sono andate in pensione prima del tempo pur di non dover lasciare le classi a metà e quindi non portare dalla prima alla quinta; altre che ricordano in modo commosso i bambini che da adulti si sono suicidati o hanno avuto esperienze negative (cfr. l’intervista di Erika Puma alla maestra Annalia, 2014, http://youtu.be/wgw0z-9ag-M).

Più che i programmi o la didattica emerge la relazione educativa e il piacere (anche se non esente da difficoltà e incomprensioni) di stare insieme ai bambini. Inaspettatamente a volte compaiono, insieme ai ricordi da adulti anche quelli dell’infanzia, della scuola vissuta come alunni: le bacchettate sulle mani ed altre modalità disciplinari di quella che oggi chiamiamo “gestione della classe”. Una serie di comportamenti subiti dalla bambina che arriva a dichiarare di aver fatto l’insegnante per non far patire ai bambini quello che lei aveva patito, “per riscattare tanti anni di sofferenza” (cfr. l’ntervista di Chiara Pace alla maestra Germana, 2014, https://youtu.be/t33zhI8W8Kc).

In altri casi il ricordo della propria infanzia a scuola si riferisce a violenze psicologiche, non meno forti di quelle fisiche: “la mia maestra diceva sempre ‘l’hai copiato’ e tutti gli altri bambini ridevano” (cfr. l’ntervista di Elena Costagli alla maestra Manuela Pioli, 2014: prima parte, http://youtu.be/r1kKBilqT8Y; seconda parte: http://youtu.be/uGbWP2WfEcA).

Una parte delle testimonianze indicano i momenti formativi più importanti, quelli che hanno costituito una svolta nel modo di lavorare con i bambini: c’è chi ricorda l’incontro con il CIDI, Centro Iniziativa Democratica Insegnanti (cfr. l’intervista di Azzurra Trallori alla maestra Elena Scuba, 2014, https://youtu.be/h-yesLpdmG0); chi con l’MCE (Movimento di Cooperazione Educativa; cfr. l’intervista di Claudia Silvioni al maestro Mario Bartocci, 2014, https://youtu.be/Lj7bJGpj-60); e chi ricorda l’incontro con singole persone come Ciari, Rodari, Preti, Agosti.

Molti ricordi riguardano gli anni Settanta e il riformismo (non solo istituzionale) che li caratterizzò. I giudizi sono molto interessanti e non sempre favorevoli al movimento della contestazione giovanile e universitaria, spesso visto come distante dalla realtà e velleitario (cfr. l’intervista di Cristina Moriggi alla maestra Maria Scarpelli, 2014, https://youtu.be/dH9ena8jVo0; l’intervista di Letizia Palladino alla maestra Stefania Rossi, 2014, https://youtu.be/e2cGnUi3xVY; l’intervista di Intervista di Giulia Manetti alla maestra Roberta Berti, 2014, https://youtu.be/OXNof9Lq6MM).

E’ molto interessante notare, infine, la presenza di alcuni elementi costanti, dei veri e propri denominatori comuni delle esperienze narrate.

Merita innanzitutto considerare che la scuola che emerge dalle testimonianze dedica sempre molta attenzione ai bambini marginali e in difficoltà, cercando in tutti i modi di includerli nella didattica della classe. Parallelamente, però, non ci sono tracce di attenzione per i bambini che oggi vengono definiti ad “alto potenziale cognitivo”.

Un secondo aspetto molto evidente e costante consiste nella grande attenzione per gli aspetti didattici, nella ricerca di metodologie adatte a migliorare l’apprendimento: una ricerca che viene mediata o dall’istituzione scolastica (per esempio attraverso i corsi di aggiornamento) oppure dalle associazioni. Raramente però gli insegnanti appaiono in grado di collegarsi autonomamente al dibattito scientifico (cfr. l’intervista di Elena Malvolti al maestro Mario Catastini, 2014, https://youtu.be/kSdRId5VP1g; l’intervista di Elena Biondi alla maestra Onorina Barbini, http://youtu.be/rg-P5pWVS1U).

Un terzo aspetto, forse il più caratterizzante e radicato nell’immaginario collettivo, riguarda la passione per l’innovazione, per la sperimentazione di nuove forme di insegnamento. Una fiducia nell’innovazione che è legata al positivo desiderio di migliorare la vita della classe, ma che al tempo stesso sembra non dover essere sottoposta a particolari verifiche se non il giudizio di chi ha sperimentato i cambiamenti. Questo procedere per successive innovazioni ricorda molto “l’andare a tentoni” di Celestin Freinet e, per quanto la sua originale impostazione si sia mescolata in modo indistinguibile con molte altre, riemerge con facilità nelle testimonianze, contrassegnando fortemente le scelte didattiche degli insegnanti.

Tutti questi aspetti sono molto significativi e possono suggerire alcune interessanti linee interpretative. Potranno auspicabilmente essere verificati con ricerche più ampie e approfondite, ma fin d’ora dimostrano la ricchezza delle narrazioni della vita scolastica e possono far capire il valore di un approccio di Digital Public Historydestinato a promuovere un reale scambio culturale tra l’approccio accademico e la comunità scolastica, quella di ieri e quella odierna.

Gianfranco Bandini (2017). Educational Memories and Public History: A Necessary Meeting. In: Cristina Yanes-Cabrera, Juri Meda, Antonio Viñao (eds.). School Memories. New Trends in the History of Education, pp. 143-156, Svizzera: Springer International Publishing, ISBN: 978-3-319-44062-0. DOI(http://dx.doi.org/10.1007/978-3-319-44063-7).

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Gianfranco Bandini, Caterina Benelli (a cura di) (2011). Maestri nell’ombra. Competenza e passione per una scuola migliore, Padova: Amon, pp. 1-212, ISBN: 9788866030799.

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